La ceramica che non volevo
Eccolo lì, il vasone. Dal ripiano della libreria mi osserva, sornione. Sa di averla avuta vinta lui. Tra due pennellate di blu cobalto mi pare addirittura di vedere una linea orizzontale, lievemente increspata, che somiglia a un sorrisetto strafottente. La noto sempre, quella linea ironica, mentre spolvero e non manca di suscitare la mia indignazione. – Basta così, mi arrendo! Vasone uno, padrona-di-casa zero! –
Stiamo assieme da tanti anni, la nostra è una storia collaudata e turbolenta, di quelle un po’ difficili che ti fanno soffrire e ti costringono a crescere. «E allora perché l’hai comprato?» mi si potrebbe chiedere. Nossignori, non l’ho comprato, mi è stato imposto, come un matrimonio combinato. In occasione di un matrimonio vero.
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Non usavano ancora le benedette liste di nozze, così pratiche anche se venate da un leggerissimo alone di kitsch. Ti sposavi e ricevevi immancabilmente venti servizi da caffè, quindici di posate e così via. Insomma, la scelta era del tutto in capo al donatore. Il vasone era il regalo della Dori, la più cara amica della mia futura suocera.
In realtà questo nomignolo vezzoso nascondeva un’altisonante Aida, di verdiana memoria, che evidentemente la signora non gradiva. Personalità poliedrica, la Dori. Intelligenza vivace, un’autentica self-made-woman che aveva saputo costruire una discreta cultura tramite buone letture. Pettegola però, quanto pettegola! E onnipresente. Partecipava alla nostra vita familiare con costanza a volte fastidiosa.
Il suo regalo di nozze, il vasone, appunto, mi ricordava nelle forme opulente le altrettanto opulente rotondità della Dori. Una sorta di albarello pretenzioso, con quel pomolo appuntito simile alla guglia di un minareto, al disotto del quale esplodeva un tondeggiare imbarazzante che mi ricordava la sesta di reggipetto della gentile donatrice. E poi! A due sposini giovani, appassionati cultori delle linee semplici, essenziali, dell’arredamento minimalista, poteva piacere un oggetto del genere?
Tentai in ogni modo di nasconderlo, salvo tirarlo precipitosamente fuori in occasione delle visite della Dori. Poi, rassegnata, gli trovai un angolino defilato dove soggiornò a lungo. Col tempo, con la maturità, imparai ad apprezzarlo, ad ammirare il paesaggio bucolico dipinto con maestria dal ceramista, che prima mi era parso stucchevole, a inorgoglirmi del contrasto eclatante che creava su qualunque superficie d’appoggio.
Testimone silenzioso e paziente della nostra vita, quante ne ha viste passare! È riuscito a superare indenne la vivacità del nostro meraviglioso bambino e le intemperanze di una gatta con l’animo dell’Houdini felino. Negli anni è stato raggiunto da numerosi colleghi, gli altri oggetti che io stessa ho comprato, ormai conquistata senza rimedio dal fascino della ceramica savonese. E mi sopravvivrà, spero che sia così, per tramandarlo alle generazioni che verranno. Magari nasconderò nella sua ampia pancia una lettera, una frase da consegnare al futuro, come in una capsula che viaggerà nel tempo, dopo di me. Sì, forse lo farò, prima o poi.